Il mondo è comandato da dinamiche molto diverse fra loro: l’amore, l’amicizia, il guadagno, il prestigio, la sopravvivenza, il potere, l’altruismo. Potremmo continuare all’infinito.
Schemi che nel corso dei secoli si ripetono e che vengono declinati in modo diverso in base alle epoche, ma che prevedono una serie di azioni che al dunque riconducono sempre agli scenari di cui sopra.
In questo, un tema che sembra accompagnare l’umanità dalla notte dei tempi – e che torna centrale secolo dopo secolo – è quello del sacrificio.
Cosa intendiamo per “sacrificio”
Ora, il sacrificio è un concetto curioso, perché prevede qualcosa di negativo ma che presuppone un successivo elemento positivo.
Prendiamo la gestazione per esempio. Una gravidanza per molti versi è un sacrificio, poiché costringe la donna a un cambiamento fisico importante, a dei limiti e dei disagi evidenti soprattutto nelle fasi finali, per non parlare del post-parto e ciò che esso comporta sul corpo, sulla chimica e sulla psiche di una donna.
Un sacrificio, a tutti gli effetti, che è controbilanciato da quel grande regalo che è la nuova vita e che nella maggior parte dei casi oscura tutto ciò che di “negativo” si è dovuto affrontare per arrivare a quel risultato.
Oppure pensiamo a uno scalatore, per fare un altro esempio. Ore, giorni di immenso sforzo fisico per raggiungere la vetta, sforzo premiato poi con il traguardo che traccia un momento irripetibile per ogni sportivo di questa disciplina, e lo consegna a imperitura gloria.
Ecco, il concetto è che il sacrificio non solo è essenziale per raggiungere degli obiettivi ma è anche funzionale al conseguimento di alcuni tra i risultati più soddisfacenti che si possano ottenere nell’arco della vita.
Ma, c’è un ma.
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Il rovescio della medaglia: visione “distorta” del sacrificio
Per come la vedo io, il gioco deve valere sempre la candela. Considerazione che potrebbe apparire scontata ma che in realtà non lo è, dal momento che per molto tempo (anche se le cose stanno lentamente cambiando) il sacrificio ha assunto il ruolo di nucleo ideologico, quasi culturale.
Il sacrificio come valore assoluto, come onore volendo, è qualcosa che tende a disturbarmi e in cui non credo.
Perché?
Beh, per esempio trovo che il sacrificio non possa mai essere un merito quando genera un estremo disagio alla persona.
Se per guadagnare più denaro lavoriamo al punto da mettere a repentaglio la nostra salute, beh, è un sacrificio inutile.
O se viceversa ci piace considerare noi stessi dei “gran lavoratori” per il solo fatto di essere i primi a entrare in ufficio e gli ultimi ad uscire, ma allo stesso tempo né noi né i nostri collaboratori traggono alcun vantaggio da questo comportamento (e se lavorassimo la metà le cose andrebbero esattamente nello stesso modo) allora credo ci sia qualcosa che non va.
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Rivedere il concetto sotto una luce nuova
Sostengo quindi che il concetto di sacrificio vada rivisto e inquadrato in un contesto più lucido e funzionale, riassumibile in una frase:
Il sacrificio ha un senso se la persona che lo compie ottiene in cambio qualcosa che aggiunge valore alla propria vita (personale o professionale) e che viceversa non toglie valore agli aspetti importanti già conquistati.
Abbiamo fatto l’esempio della salute, il più classico. Proviamo a estendere contestualizzando l’argomento a una realtà lavorativa.
Immaginiamo di essere titolari di una PMI, che pur non essendo particolarmente strutturata ha almeno un referente per tutti i reparti principali: vendita, marketing, produzione, distribuzione, amministrazione.
Immaginiamo che il titolare, come avviene nella maggior parte delle aziende di questo tipo, sia anche il PRIMO venditore dell’azienda. Quello più performante, che ha i contatti storici con i clienti maggiori, e che per un motivo o per un altro viene costantemente “richiesto” per finalizzare le trattative più delicate.
È chiaro che, in un contesto del genere, il suddetto imprenditore mai si sottrarrà all’attività di vendita e supporto per la quale è chiamato a prestare servizio. Non gioverebbe all’azienda.
Di conseguenza tenderà a prodursi in sforzi sovrumani al fine di garantire alla sua azienda l’apporto di fatturato necessario al suo sostentamento e, se possibile a una piccola e costante crescita.
Per farlo, però, sarà costretto a trascurare aspetti importanti della sua azienda. Come la progettazione, lo sviluppo, le riunioni interne, le pubbliche relazioni.
Si guarderà intorno e penserà di non avere alternative, perché magari gli altri venditori (anzi, quelli che dovrebbero essere gli UNICI venditori dell’azienda) non raggiungono minimamente i suoi risultati.
E continuerà così, in un circolo vizioso, rimettendoci per altro in salute, in tempo personale praticamente inesistente, in momenti di “decompressione” che non può mai concedersi e così via.
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Il sacrificio come “scelta di comodo”
Quello che penso? Con brutale sincerità: il vero problema è che in molti casi il sacrificio non è un onore, ma un difetto. Una zona di comfort della quale ci lamentiamo ma dalla quale non riusciamo e non vogliamo sottrarci.
A ben pensarci, infatti, sacrificarsi personalmente e oltre ogni ragionevole misura può essere faticoso ma più “semplice” rispetto al cambiare le cose.
Il cambiamento richiede coraggio e pianificazione, qualcosa che non è compensabile dallo sforzo fisico.
Nell’esempio di cui sopra, per dirne una, sarebbe molto più proficuo analizzare le dinamiche di dispersione del tempo di tutta la rete vendita, capire come gestirle, organizzare degli eventi interni che consentano ai venditori di entrare in relazione con gli stakeholder principali, delegare alcune funzioni operative, e in qualche modo, perché no, anche “rischiare” dei piccoli e momentanei insuccessi.
Solo rompendo il circolo vizioso si può accedere a uno virtuoso. Ma questo richiede uno sforzo che non è un sacrificio fine a se stesso ma piuttosto un cambio mentale di paradigma.
Solo a quel punto ci si può rendere conto che, alla fine della fiera, il vero sacrificio non è inferiore a quello che pensavamo, ma sbagliavamo a pensare che fosse possibile, anzi, che fosse utile, sostenerlo da soli. Quel sacrificio, lo si può dividere con i propri collaboratori, rendendolo sostenibile per tutti e soprattutto rendendo molto più facile e veloce accedere all’incremento dei risultati. Per il bene proprio (dell’imprenditore), di chi lavora in azienda, e dell’impresa stessa.
Alla prossima
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